Zero rumore, ma la Formula E riesce laddove fallisce la F1: c’è competitività diffusa e incertezza

La Formula E non è paragonabile alla nobiltà e al fascino della Formula 1, ma anche la categoria regina può imparare qualcosa dalla cugina elettrica...

Zero rumore, ma la Formula E riesce laddove fallisce la F1: c’è competitività diffusa e incertezza

Piace e diverte perché c’è sfida, competizione, bagarre. Affascina perché le vetture sono sempre più performanti e i tracciati sempre più insidiosi, sporchi e cattivi. Tocca ai piloti guidare al millimetro tra muretti e spigoli, su asfalti poco gommati. E così i colpi di scena sono assicurati, complici gerarchie non definite e sorprese dietro l’angolo.

La Formula E, la massima categoria totalmente elettrica, giunta al suo quinto anno e con queste “batmobili” di seconda generazione che hanno soppiantato le prime esili monoposto, continua a dividere gli appassionati. I puristi muovono le principali accuse alla serie pensata da Jean Todt e Alejandro Agag sul presupposto che non c’è motorsport senza motore a scoppio, puzza (rectius odore!) di olio bruciato e scarichi fumanti. Ma nelle corse di macchine – permetteteci – non conta tanto il modo col quale la potenza viene generata e trasmessa alle ruote, quanto come i piloti sanno maneggiare questa potenza, conta insomma la guida. E in Formula E, signore e signori, c’è guida vera. Le monoposto sono pesanti e sottosterzanti, l’accelerazione elettrica è di tipo on/off, molto più complicata da modulare rispetto al gas classico. La riprova è data da piloti di F1 di sicuro valore – come non citare una vecchia volpe come Felipe Massa e un giovane quotato come Stoffel Vandoorne – che soffrono oltremodo il passaggio alla bistrattata Formula E.

Senza accennare nemmeno a paragoni insostenibili con la F1, vera categoria regina dell’automobilismo, con quei missili terra terra che ci fanno sussultare e innamorare, v’è però da notare come la Formula E stia riuscendo proprio dove manca la Formula 1, ovvero regalare imprevedibilità. L’ePrix di Santiago del Cile ha trasformato i pronostici della vigilia in cadute degli dei, la BMW miglior monoposto dei primi due appuntamenti battuta da Virgin (strepitoso Bird) e Mahindra (con un Wehrlein che si è ambientato subito), il leader del campionato D’Ambrosio soltanto decimo, un campione della categoria come Sebastien Buemi che va a muro sbagliando un controllo, Di Grassi che tampona una Dragon e così via.

Ad una Formula E che regala tre vincitori diversi nelle prime tre gare e una griglia sempre mischiata, livellata, dove sono i singoli piloti a volte a fare la differenza, nel bene e nel male, la F1 oppone il triello Mercedes-Ferrari-Red Bull, già tra loro spesso sgranate, e uno schieramento spaccato. Una forbice che ahinoi rischia ancora più di ampliarsi a causa dei nuovi regolamenti. Perché chi ha più soldi trova prima degli altri il bandolo della matassa e non dovremo stupirci se in qualifica tra terza e quarta forza ci sarà un secondo di differenza, se insomma servirà il binocolo per trovare un outsider e se nei suoi giorni migliori Hamilton potrà doppiare anche se stesso.

Ma alla F1 snob e tradizionalista, piena di se stessa e del suo nobilissimo retaggio, pregna di Storia e di leggenda, non chiediamo certo di emulare un mezzo monomarca quale è la Formula E. Ma prendere un po’ spunto dal cugino green, ad emissioni zero, non sarebbe un delitto né una offesa al proprio DNA. La “nostra” F1 deve lavorare sulla competitività, deve puntare all’incertezza e ad un livellamento generale delle prestazioni, deve avvicinare e non allontanare le squadre. Deve insomma diventare più premier league e meno campionato francese. Già dal 2019 più scuderie e piloti saranno protagonisti più il prodotto conquisterà il pubblico. Checché se ne dica la Formula E diverte eccome, anche con monoposto più selettive e con l’ingresso dei costruttori. Mica è un peccato dirlo?

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