Honda Story: l’esordio in Formula Uno

Ripercorriamo i primi anni della celebre casa nipponica nella maggiore serie

Honda Story: l’esordio in Formula Uno

Il nome Honda, in un mondo come quello della Formula Uno, riporta immediatamente tutti gli appassionati al glorioso periodo in cui i propulsori giapponesi, posti sulle monoposto quali Lotus, Tyrrell, Williams e soprattutto McLaren, dominavano i campi di gara a cavallo tra gli anni ’80 ed i primi anni ’90. Tuttavia non fu questa la prima partecipazione della casa nipponica alla massima serie: per scoprirne le origini bisogna tornare indietro nel tempo, verso la metà degli anni ’60.

La Honda Motor Co., Ltd. cominciò a produrre automobili per la prima volta nel 1960, dopo un già ampio successo nel campo motociclistico, cominciato circa 12 anni prima. L’effettiva produzione di serie cominciò però soltanto nel ’63, con l’uscita del modello S500, una piccola cabriolèt, e da lì il grande passo verso il mondo della Formula Uno, dominata allora dagli europei con marchi come Ferrari, Lotus, BRM.

Il 2 agosto del 1964 la Honda presentò di fatto il suo primo modello al grande circus, la “RA 271”. Costruita secondo il regolamento vigente allora, ebbe il suo battesimo del fuoco sull’impegnativo circuito del Nürburgring. Livrea bianca con il disco rosso – simbolo del sole nonché bandiera nazionale – posto sul cofano, il numero “20” sulla fiancata, scelto dall’unico pilota, l’americano Ronnie Bucknum: partì così l’esperimento della Honda. Quel weekend non fu un fiasco totale, come molti si sarebbero aspettati: solo ventiduesima al termine delle qualifiche, la neonata vettura nipponica dovette fermarsi dopo dodici giri dall’inizio della gara per un incidente, dovuto ad un contatto con Richie Ginther, mentre lottava per un posto nella top ten e dopo aver superato molte BRM e Lotus clienti.
Ad ogni modo i presupposti per fare bene in un prossimo futuro non mancavano ed il fatto più sorprendente fu la capacità degli ingegneri Honda, guidati dal genio di Yoshio Nakamura, di creare non solo un telaio di Formula Uno partendo pressoché da zero, ma anche tutto l’impianto tecnico, tra cui trasmissione e motore, cosa che allora soltanto un costruttore famoso come Ferrari poteva permettersi. Di fatto, il “millecinque” a dodici cilindri nipponico poteva vantare una potenza di circa 220 cavalli a 12.000 giri, con una distribuzione con doppio albero a camme in testa; il peso totale della vettura a secco era di 525 kg con una velocità massima non attestata intorno ai 270 km/h. in alcuni libri è possibile trovare citato il propulsore di questa vettura come il “più forte motore da 1.5 litri”, nonché il più innovativo in quanto montato trasversalmente e senza l’uso di compressore volumetrico.

Sempre nella stessa stagione la Honda si presentò a Monza, agguantando la decima posizione e stando di fatto davanti alle più prestanti Brabham. Alla partenza della gara Bucknum perse alcune posizioni, arretrando fino alla sedicesima casella, recuperando nei giri successivi fino ad arrivare al settimo posto, appena fuori dalla zona punti. Purtroppo un guasto all’impianto frenante lo costrinse a ritirarsi al 13° giro, annullando ogni possibilità di vittoria. In cuor suo però la Honda sapeva di aver dimostrato ai ben più esperti costruttori europei di cosa fossero capaci e rinnovarono la sfida per l’annata successiva, con la sicurezza di poter ottenere risultati migliori.

Mantenute le promesse, i nipponici si presentarono nel 1965 con la “RA 272”: telaistica simile al modello precedente con pochi ma essenziali ritocchi che portarono il peso vettura sotto i 500 kg. È il motore ad essere, ancora una volta, il vero protagonista della monoposto: raffreddato ora a liquido, riusciva a sprigionare fino a 270 cv, cifra irraggiungibile per tutti gli altri, Drake compreso, il quale sosteneva che “L’aerodinamica è il risarcimento per chi non sa spremere cavalli dal motore.”; quell’anno dovette dar ragion del fatto che gli orientali avessero incarnato esattamente ciò che lui cercava.

Al già “collaudato” Bucknum venne affiancato un altro pilota americano di grande esperienza: Richie Ginther, che applicò il numero 11 sulla fiancata. La stagione vide periodi di alti e bassi, con due sesti posti di Ginther che regalarono al team Honda i primi due punti iridati. Si arrivò quindi all’ultimo Gran Premio della stagione, quello del Messico, dove accadde l’inaspettato: Ginther vinse e Bucknum giunse quinto. Fu la prima vittoria in assoluto per una casa automobilistica  non europea in un mondiale di Formula Uno, per di più con un pilota americano. In classifica costruttori furono sesti, a soli tre punti dal ben più blasonato team inglese “Cooper-Climax”.
Nel 1966 proseguì il cammino dei nipponici con la “RA 273”, guidata da Ginther e da John Surtees.

Si dovette attendere il ’67 per vedere la Honda sul gradino più alto del podio: Surtees vinse a Monza, sfruttando le grandi doti velocistiche della “RA 300” e cogliendo un quarto posto nel GP del Messico.  Il 1968 la “RA 301” di Surtees e Jo Schlesser si dimostrò poco affidabile: in verità la vettura era quella della stagione precedente, con qualche piccola modifica a livello aerodinamico, mentre il motore era rimasto invariato. Surtees portò a termine solamente tre gare e quando il nuovo modello, denominato “RA 302” fu pronto, si rifiutò categoricamente di guidarlo giudicandolo poco sicuro. Schlesser invece si presentò a bordo del nuovo modello durante il Gran Premio di Francia, sua patria. Sfortuna volle che durante il secondo giro ebbe un incidente: la vettura uscì di pista, andando a sbattere contro le barriere e prendendo fuoco; ciò fu mortale al quarantenne francese.

Colpita anche da una forte crisi economica dovuta all’insuccesso nel mercato americano, la Honda decise di porre fine alla propria carriera in Formula Uno come Team, salvo poi tornare nel 2006 per altre tre stagioni. Ma questa è tutta un’altra storia.

 

Andrea Villa

 

 

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