La parabola del campione: Hamilton s’è davvero arreso?

In Giappone Hamilton è sembrato la controfigura del pilota arrembante che conosciamo...

La parabola del campione: Hamilton s’è davvero arreso?

Anche il Mohammed Alì della F1 non ha retto ai colpi duri, sfiancanti e implacabili dell’apollineo Nico Rosberg, un diavolo travestito da angelo che, coadiuvato anche da una sorte particolarmente favorevole, sembra sempre più involarsi verso il primo mondiale in carriera.

Lewis Hamilton in Giappone è stato un’ombra malinconica, un inafferrabile Ronin, un guerriero errante, solo contro tutti. Distratto e indisponente in conferenza stampa, semplicemente sconfitto in qualifica, polemico con i media, irriconoscibile nella prima parte del GP.

La partenza di Lewis a Suzuka può trarre facilmente in inganno; perché in realtà l’anglo-caraibico non è rimasto fermo con la frizione in mano in seconda posizione, bensì era ancora piegato su se stesso, mani sul casco, nel pratello alla prima curva di Sepang. Quel motore in fumo è stato un montante da ko, il segno più atroce di un destino stavolta avverso, la cabala rivelatrice – più di ogni sospetto, teorie del complotto o altro – che stavolta dovrebbe toccare al gemello diverso, al grande (ex) amico rivale.

E così un Hamilton senza mordente, sfibrato, s’è lasciato correre tra le curve di Suzuka senza crederci troppo, sfilato dagli altri in partenza e divorato dai dubbi, con quella manovra alla chicane frettolosa e non troppo lucida nei confronti di Verstappen, una specie di grido di disperazione in una sorta di simbolico passaggio di consegne, suggellato dalle parole pesanti come macigni di un Lauda che di fatto ha “assegnato” il titolo a Rosberg. Il Lewis dei mesi estivi, star cannibale del Circus, capace di ribaltare le carte in tavola e riprendersi di prepotenza la leadership iridata, il leone prepotente che umiliava il rivale in Austria, dopo l’estate ha lasciato il passo ad un Hamilton in “re minore”, di una tonalità più bassa, quasi dall’atteggiamento dimesso.

Finanche le strette di mano a Rosberg, la voce bassa, l’approccio fin troppo remissivo al duello iridato, tradiscono l’inconscia autoconsapevolezza della prevedibile sconfitta, la certezza che per tutti arriva prima o poi il momento di abdicare, e che l’impatto è tanto più fragoroso quando cade chi è abituato ad essere il più forte, chi con classe istintiva e talento innato riesce a risorgere sempre. Come un leone ferito, quasi offeso, Lewis sembra essersi arreso, accettando la più cocente delle batoste. Eppure, ne siamo certi, uno scatto d’orgoglio, un guizzo geniale, o soltanto la pura velocità di cui è dotato, permetteranno probabilmente ad Hamilton di giocarsi un ultimo incredibile round. Il gong definitivo, d’altronde, non è ancora suonato.

Antonino Rendina


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