GP Messico – Da Hamilton a Verstappen: il virtuale passaggio di consegne che spaventa la Ferrari
Stretta nella morsa di avversari che asfissiano e logorano, persa tra un’ambizione alla quale – negli ultimi tempi – hanno fatto difetto più i risultati che le performance e la grande voglia di un primato e di un mondiale che mancano da troppo, la Ferrari è uscita con le ossa rotte da Città del Messico. Davvero mala tempora currunt se un’altra pole, teoricamente un’ipoteca sulla vittoria, si trasforma nell’ennesima notte di tregenda fatta di contatti, pezzi che volano e rimonte proibitive.
Qualcosa è cambiato nella geopolitica della F1 attuale. Il ritorno in auge del Cavallino, tanto atteso e meritato, sembra essere di nuovo in salita. La pista parla chiaramente, e ci racconta di difficoltà crescenti. La Mercedes è tornata la macchina da battere, e Lewis Hamilton mai come quest’anno ha dimostrato una costanza di rendimento e una concentrazione da fuoriclasse navigato, da serial winner qual è. Passino gli atteggiamenti da pop star e le velleità artistiche, dietro la corteccia di quella che si reputa ormai un’icona mondiale, resta uno dei più grandi “manici” mai apparsi in F1.
Seb Vettel, ci mancherebbe, non è da meno. Lo dimostra la pole position di Città del Messico, ce lo dicono le grandi gare di quest’anno. Eppure il tedesco, sempre più uomo Ferrari, sembra essere andato un po’ in debito d’ossigeno quando gli sono venute a mancare delle certezze. Il rientro dalle vacanze d’agosto è stato traumatico, la Ferrari è passata “dall’anno buono” a vedersi mangiato tutto il vantaggio, perdendosi poi definitivamente tra incidenti al via e inusuali nonché preoccupanti problemi di affidabilità.
Monza è stata la vera pietra tombale; quando becchi mezzo minuto nel tuo “stadio” c’è ben poco da salvare. Un Cavallino a due facce, meraviglioso nella prima parte di stagione, claudicante quando il gioco s’è fatto duro. Vettel ne ha risentito, troppe le incertezze disseminate qua e là, anche la partenza in Messico ha lasciato a desiderare, con il troppo spazio concesso a Verstappen, il troppo ottimismo di una traiettoria che porgeva il fianco al terribile ragazzo olandese.
L’autodromo intitolato ai fratelli Rodriguez fa scattare anche un altro allarme. Forse non è un caso che mentre Hamilton correva ebbro di gioia per la pista con la Union Jack sulle spalle, a festeggiare il successo di tappa non c’era una vettura rossa, né il simpatico e veloce Ricciardo. Nemmeno Bottas, ottimo mediano che non ha “né lo spunto della punta né del dieci che peccato”. No, a festeggiare un vero e proprio dominio in Messico c’era Max Verstappen, il talento sul punto di ribaltare la F1.
La sua progressione nelle ultime gare è stata impressionante. Due vittorie, un secondo e un quarto posto. Senza timori reverenziali, nè complessi di inferiorità, la capacità di prendersi di forza la leadership nel team (che ormai è tutto per lui) e la prima posizione in pista, la guida aggressiva e incisiva, con quella naturalezza nel far scivolare la vettura tra i cordoli. Una velocità tale di doppiare più di metà schieramento. Una vittoria memorabile, sembrata facilissima, altamente simbolica. Un virtuale passaggio di consegne, tra il tetracampeao Hamilton, sugli scudi, e questa giovanissima tempesta orange che tutto e tutti può spazzare via, perché il momento è propizio e il 2018 ci dirà tantissimo.
Vettel e la Ferrari avranno un grattacapo in più, una Red Bull che sembra d’improvviso tornata efficacissima, stabile e competitiva, un binomio Verstappen-Newey che potrebbe ripercorrere recenti fasti, e poi bisogna sempre fare i conti con Hamilton, colui che nell’anno buono della Rossa ha soltanto vinto il mondiale con due gare d’anticipo. Leggeremo una storia affascinante ed emozionante, il Messico è stato il gustoso antipasto di quello che verosimilmente sarà un “triello” senza esclusione di colpi.
Antonino Rendina
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