Ferrari ed il sogno Indy

Ferrari ed il sogno Indy

Agli appasionati di Formula Uno è noto che la casa del Cavallino Rampante ha sempre preso parte ad ogni singola gara del Campionato di Formula Uno sin dalle sue origini. Quello che pochi sanno riguarda un sogno che il Drake nutriva: prendere parte alle competizioni che si svolgono tutt’oggi in America con il nome di IndyCar Series, allora denominate Champ Car.

Vi provò una prima volta alla 500 Miglia del 1952, senza particolari motivazioni, su espressa richiesta di Alberto Ascari che portò oltreoceano una sola “375 Indy” ribattezzata poi con il nome Special, derivante dalla monoposto della stagione precedente. Se i primi test svolti sul circuito ovale di Monza fecero ben sperare, un triste destino spettò alla compagnia di Ascari & Co: nel nuovo continente il nome di Ferrari stava ancora acquisendo prestigio come produttore di auto di lusso e reggere il confronto con i colossi del luogo fu impossibile, tanto che si trovarono soltanto due sponsor (uno dei due fu Mobil). Imbarazzante fu anche la differenza di velocità tra le monoposto americane e quella italiana, che soffrì soprattutto di problemi di trazione in uscita dalle curve dell’ovale, incidendo conseguentemente sulla velocità di punta. Grazie alla sua esperienza Ascari riuscì comunque a qualificarsi, riuscendo di fatto in un mezzo miracolo e sorprendendo molti dei tecnici che avevano gentilmente consigliato ai nostri di reimbarcarsi per tornare in Europa. Partito così 19° Ascari cominciò a rimontare sino alla nona posizione grazie alla sua costanza nei tempi sul giro, tuttavia dovette ritirarsi per un cedimento di una delle ruote, dovuto al fatto che correndo in un solo senso la forza centripeta convergeva quasi tutta su una sola parte della vettura. Il che fu motivo di imbarazzo per Ferrari che, nonostante avesse cercato di impedire la “spedizione”, non digeriva il fatto vedere una delle sue vetture non essere all’altezza della situazione. Ma il broncio gli passò subito in quanto c’era un campionato di Formula Uno a cui pensare e tenere altro l’onore nel vecchio continente era cosa assai più importante.

Passarono gli anni ed il “sogno americano” divenne solamente un puntino lontano, un malsano e giovanile tentativo di approdare in una serie così diversa da quella europea. O almeno fu così fino alla metà degli anni ’80, quando quel sogno tornò a bussare alla porta dei sogni di Enzo Ferrari. Come mai?

La causa principale fu l’eccessiva innovazione e l’incapacità della Federazione di intervenire quando ancora il progetto di un motore turbo era allo stato embrionale. Quando la FISA decise di sospendere il regolamento del 1985 che prevedeva motori di 1200 cm3 sul quale la casa di Maranello aveva già pronto un propulsore quattro cilindri, Enzo Ferrari andò su tutte le furie arrivando anche a dire di voler abbandonare il Circus per altri campionati. La sua uscita avrebbe sicuramente danneggiato l’immagine della Formula Uno, ma né la Federazione né la FISA sembrarono dare peso a quelle parole nate quasi per capriccio. Così il Commendatore passò dalle parole ai fatti.

Incaricò il designer austriaco Gustav Brunner, allora già progettista di quella che sarebbe stata la monoposto dell’anno successivo per la Formula Uno, di studiare un prototipo da portare oltreoceano. La base per quanto concerne il telaio venne dalla March 85C del team di Jim Trueman, che nel 1985 aveva visto una stagione nella serie CART altalenante a causa di una scarsa competitività a livello motoristico. Dopo che questa venne portata in Italia e provata di nientemeno che Michele Alboreto per carpirne ogni preziosa informazione, si diede inizio al progetto “Indy” che in circa un anno arrivò al prodotto finito e pronto a solcare gli asfalti ovali (e non) d’America. Come propulsore venne adottato il performante 8 cilindri utilizzato con successo sulla Lancia LC2 nel Campionato Mondiale SuperPrototipi, il quale era conforme alle normative del campionato americano. Quello strano quanto ambizioso progetto aveva assunto una forma ed i dati parlavano chiaro: 690 cavalli di potenza a 12.000 giri/minuto, 4420 mm di lunghezza e 1990 di larghezza, elettronica Magneti – Marelli. Non restò che accenderla e testarla sul circuito di Fiorano in una calda giornata estiva, scegliendo come “avversario” proprio la March – Cosworth del Truesport. Con sorpresa dei molti presenti la 637 pilotata da Alboreto prevalse sulla parente americana e ciò infuse fiducia tanto da decidere di iscriverla per la gara che si sarebbe tenuta in ottobre sul circuito di Laguna Seca.

Nel frattempo le voci riguardanti una probabile partecipazione di Ferrari al campionato CART si erano fatte piuttosto insistenti. Il Drake aveva infatti sfruttato la situazione a suo favore agevolando ad arte la “fuga” di notizie ed anche di foto che in breve tempo erano finite su molte riviste motoristiche. Ci si interpellava in cerca di risposte che sarebbero arrivate il 12 ottobre, giornata decisa come ritorno – anche se sarebbe meglio definirlo “battesimo” ufficiale – della Ferrari nelle competizioni americane. Quando il progetto sembra essere giunto al suo acme viene invece bloccato. È John Barnard in persona ad intervenire e bloccare tutte le trattative tra Ferrari e Truesport. A quanto pare all’ultimo si era deciso di virare nuovamente sulla Formula Uno, tutti gli sforzi e le risorse sarebbero stati concentrati lì, forse perché il Drake vi aveva visto uno spiraglio di luce dovuto alle continue lotte tra Federazione e FISA, forse perché entrambe avevano ceduto alle sue pressioni per timore di perdere un team così importante. Chi lo sa, ancora oggi una risposta certa non si è in grado di darla e forse è meglio che rimanga così, alimentata da un alone di mistero di chissà quale derivazione. Quello che quindi rimase un prototipo venne ceduto pochi anni dopo all’Alfa Romeo che tentò a sua volta un ingresso nella Indy Series, tra l’altro senza particolare successo.

La figlia mai nata si trova tutt’oggi in mostra alla galleria Ferrari accanto ad altre monoposto che hanno scritto la storia della scuderia modenese ed al propulsore 4 cilindri che avrebbe dovuto spingere la Formula Uno del 1985. Causa ed effetto a pochi metri l’uno dall’altra. E la dimostrazione che ancora un volta, nonostante l’età e l’evoluzione dei tempi, il Drake aveva fatto pesare la sua voce su una Formula Uno che stava cambiando aspetto, passando dall’utilizzo eccessivo dell’elettronica ai diritti televisivi. Ancora oggi la Indy rimane un progetto incompiuto della scuderia italiana, chissà che qualcuno al suo interno non vi nutra ancora il sogno.

 

Andrea Villa

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