Ayrton, diciassette anni e non sentirli
Sono passati diciassette anni da quel 1° Maggio 1994, eppure è come se fosse passato pochissimo tempo.
Ieri abbiamo ricordato, giustamente, Roland Ratzenberger. La sua morte era già stata troppo, per quel weekend, dopo l’incidente di Barrichello nelle qualifiche del venerdì.
Dopo un Sabato del genere, nessuno avrebbe potuto immaginare che la Domenica avrebbe riservato alla Formula 1 un altro evento drammatico. A conclusione di una tre giorni che, di fatto, ha chiuso un’era per aprirne un’altra in Formula 1.
Lo schianto di Barrichello, la morte di Ratzenberger e la scomparsa di Senna, uno dei piloti più attivi sul fronte della sicurezza, hanno smosso le acque, hanno fatto capire quanto la distribuzione dei pesi tra le prestazioni e la sicurezza fosse troppo a favore delle prime.
Tante volte, infatti, negli anni precedenti, si era rischiato grosso. Basti ricordare, proprio a Imola, l’incendio della Ferrari di Berger, nell’89. Proprio al Tamburello.
Dal 1995 in poi le monoposto sono state riviste completamente. Sono state introdotte le protezioni ai lati del casco, crash test più rigidi, collare Hans e tutta una serie di accorgimenti che, tra monoposto e tracciati, hanno reso la F1 molto più sicura.
Il ‘sacrificio’ finale di Ayrton è servito per cambiare tutto. E questo rende l’idea di quanto quest’uomo incidesse moralmente sul Circus. Tornando a Ratzenberger, e ribadendo il concetto che gli uomini sono tutti uguali di fronte alla morte, non siamo sicuri che la sua scomparsa sarebbe bastata a ‘cambiare strada’. Perchè (è ingiusto, lo sappiamo) il ‘peso specifico’ sulla F1 dei due piloti, per esperienza e risultati, era immensamente diverso.
Per intenderci: la sola morte di Roland sarebbe stata, probabilmente, digerita nel contesto del detto ‘Motorsport is dangerous’. Insomma, ‘cose che possono capitare’, ‘il rischio del mestiere è dietro l’angolo’, etc.
Ma è con la tragedia di Senna, il più carismatico, il più forte, che si è capito definitivamente che qualcosa non andava. Quel qualcosa per il quale lo stesso Ayrton si stava impuntando, chiedendo più sicurezza.
Dopo diciassette anni siamo ancora qui a parlarne. Perchè chi ha vissuto quel periodo sa che questa Formula 1 è anche figlia di quel weekend. E, per quanto i video possano essere indicativi e mostrare cosa è successo solo chi ‘c’è stato’, fisicamente o anche solo a distanza, può raccontare quanto in quei tre giorni l’aria fosse pesante già dal venerdì.
Ayrton sembrava immortale. Il suo modo di parlare, di raccontare la sua fede, gli conferiva uno status virtuale di ‘intoccabile’. Nonostante questo, quella Domenica, sulla griglia di partenza, dal suo volto traspariva un disagio.Nei due giorni precedenti, aveva capito che si era arrivati al limite. Era dovuto andare a trovare l’amico Barrichello in ospedale e aveva visto, in diretta, un suo collega lasciarci le penne. Ayrton sapeva anche che la morte è parte della F1, ma per quanto il rischio fosse impossibile da calcolare si doveva fare il possibile per limitarlo. Perchè, altrimenti, il gioco di continuare non sarebbe valso la candela.
Non sapremo mai cosa pensava, in quei minuti, sulla griglia di partenza. Sappiamo però che con sè, sulla Williams sulla quale ha corso i suoi ultimi 7 giri destinazione Leggenda, è stata trovata una bandiera austriaca che avrebbe sventolato al mondo al termine della gara, vittoria o meno, in onore di Ratzenberger. E che, durante un giro in prova, ha salutato via radio il suo eterno rivale Alain Prost con un “I miss you, Alain”.
Un “I miss you” che, riascoltato adesso, commuove ancora. Perchè racchiude, in poche parole, l’umanità di Ayrton. Umanità che, dopo tutti questi anni, traspare ancora dall’affetto di chi lo ha ‘vissuto’. E accorcia il tempo.
Alessandro Secchi
F1Grandprix.it
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